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Commento di Luca Martini
E’ difficile classificare la musica di Frank Zappa come progressive, trovandosi, soprattutto nei primi dischi, al confine tra rock, rock psichedelico, bizzarre, progressive, jazz, blues e soul, ma di certo non si può tacere della straordinaria musica e dell’incredibile talento del più folle (o del più savio in un mondo di matti, come hanno detto in tanti...) e geniale musicista degli ultimi quaranta anni. La sua musica, infatti, non ha nulla in comune con nessun altra: basi blues e rock, sperimentazioni sonori al limite del possibile (si notano influssi evidenti di musicisti classici di avanguardia estremi, come Pierre Boulez, Edgar Varèse, Olivier Messiaen, Igor Stravinskj e Karlheinz Stockhausen) e testi irriverenti, intelligenti e fuori dagli schemi. Risultato: creare il caos nella musica, distruggerla dall’interno, portarla all’esterno sotto altre forme, sempre diverse, in modo da non lasciare mai l’ascoltare indifferente, stimolandone l’intelligenza sopita e
l’attitudine ad un ascolto ormai fiacco. Uno stile unico, barocco e ridondante, ironico e a tratti demenziale, musica spesso portata all’estremo (a volte nella apparente banalità, altre volte nella incredibile difficoltà), intelligenza fuori dal comune e percorrenza dei tempi imbarazzante.
Esempio di tutto ciò è questo album, "Freak out", lavoro di esordio (siamo nel 1966!), un LP provocatorio, contro i benpensanti ed assuefatti dell'epoca, contro una immagine facile della America di provincia e del sogno americano, aspetti criticati e ridicolizzati da Zappa attraverso le sue canzoni leggere. Si tratta, dunque, di un disco leggendario, fondamentale e straordinario, una vera e propria pietra miliare del rock, ed anche del rock progressive. Tutto il lavoro merita di essere ascoltato nella sua interezza, trattandosi di un disco che ha influenzato tutti i musicisti successivi (si, mi spingo a dire tutti e se lo ascoltate con attenzione capirete perché...) e che ha cambiato il modo di fare musica e di scrivere i testi. Una menzione particolare per due brani: "You didn't try to call me", brano incredibile, che cambia tono, ritmo e sapore
in continuazione, e "It can't happen here", brano realizzato con sovrapposizioni di voci stonate, una specie di free jazz vocale e strumentale messo in "canzonetta", (siamo negli anni di "Free jazz" di Coleman e di "Ascension" di Coltrane, lavori ai quali Zappa pare guardare con attenzione, soprattutto a fini provocatori) che sconvolge e disorienta l’ascoltatore, e che a tutt’oggi resta un ascolto complesso ma davvero soddisfacente.
Una avvertenza: questo disco, come tutti i dischi di Zappa, vanno ascoltati con attenzione colta, con preparazione e con modestia, soltanto così si apprezzerà appieno il lavoro del più geniale e provocatorio autore di "canzonette" di tutti i tempi.
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