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Commento
di Luca Martini
Ho la fortuna di potere recensire una serie di capolavori,
primo tra tutti questa pietra miliare della musica,
composta all’alba del rock progressive (siamo nel 1970),
e maturata in piena avanguardia jazz rock. Il gruppo
in questione è quello dei Soft Machine,
gruppo inglese, il cui leader porta il nome, mitico,
di Robert Wyatt, superbo batterista ed espressivo cantante.
Si nota in tutto il disco una struttura rock progressive
(probabilmente influenzata dal capostipite "In
The Court Of The Crimson King" dei King Crimson)
superata immediatamente da una adesione pionieristica
a quello che sarà il rock progressive (assolo fulminanti,
melodie ripetitive e ossessive, ritmica folgorante),
il tutto condito da una atmosfera davvero magica ed
arcana, in una parola irripetibile.
Una precisazione: una recensione veloce e limitata nello spazio, come la presente, non potrà mai essere esaustiva, poiché ogni brano del disco cambia e si evolve di continuo, sia ritmicamente che melodicamente, modificando atmosfere, effetti e sensazioni, in una tempesta interiore che travolge ed entusiasma l’ascoltatore più sensibile ed attento.
Il disco si apre con una dissonante e contorta distorsione
di chitarra, eseguita con allucinata e visionaria precisione
da Hugh Hopper. Pian piano si aggiungono i fiati, le
tastiere ed il violino, e finalmente, dopo quasi 5 minuti,
"Facelift" entra nel vivo, ed i fiati disegnano
una grandiosa melodia, geometricamente perfetta, per
poi dare spazio alle chitarre. Un brano registrato dal
vivo alla Fairfeld Hall di Croyton (Londra) e al Mother’s
C lub di Brimingham tra il 4 e l’11 gennaio del 1970.
Nel secondo brano, "Slightly All The Time"
, l’intento ossessivo, cadenzato da un basso ripetitivo
e da un sassofono molto jazzato (si capisce, qui, quali
influssi possano avere avuto, tra gli altri, Soft Machine
per un gruppo italiano fantastico quali i Perigeo…)
si fa evidentissimo: 18 minuti (è il brano che dura
di meno….) di pura gioia per le orecchie, in cui il
sassofono e il piano si fondono in melodie di influenza
coltraniana, che non vorremmo finissero mai...
Ed eccoci, dopo quasi 40 minuti, al capolavoro del disco:
"Moon In June": qui la musica sembra essere
composta da una entità aliena, perfetta, musicalmente
complessa ed esaltante. La voce di Wyatt disegna melodie
interiori, oniriche, mistiche e magiche. C’è poco da
dire su questi 19 minuti di fragile, autentica, complessa
e minimale perfezione, se non: ascoltarli, e riascoltarli
ancora...
Infine, chiude il disco "Out-Bloody-Rageous",
il brano più complesso e ambiguo dell’intero lavoro,
e, probabilmente, di tutta la musica progressive. Un
ascolto, nelle sue parti iniziale e finale, ancora oggi
sconvolgente, per certi aspetti, che pare trascinare
l’ascoltatore in un viaggio dentro un buco nero, alla
ricerca dell’irraggiungibile, pura materia, senza un
ritorno. Un tema semplice, ripetuto ossessivamente,
semplice e minimale, ma indelebile: una esperienza di
ascolto unica. Nella parte centrale un tema jazz rock
perfetto, cadenzato da una ritmica esplosiva, per poi
tornare al tema iniziale, che andrà minuziosamente a
chiudere il brano.
Insomma, un disco che non assomiglia a nessun altro, unico, indimenticabile, difficilmente commentabile, soltanto da ascoltare, per sempre.
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